IL PRETORE Letti gli atti, osserva quanto segue. Il ricorrente, ammesso ad usufruire della pensione di vecchiaia a carico della cassa nazionale di previdenza e assistenza per gli avvocati ed i procuratori, lamenta che nella base di computo della pensione stessa sono stati inseriti i redditi nell'ammontare che aveva dichiarato ai fini dell'I.R.Pe.F., e non e' tenuto conto dei maggiori redditi risultanti dalla successiva definizione con gli organi fiscali a seguito di accertmenti svolti da questi ultimi. L'ente convenuto si costituisce e, pur non contestando le circostanze di fatto esposte nel ricorso, assume la infondatezza della doglianza di controparte, ribadendo che la base di calcolo per il computo della pensione va determinata avendo riguardo ai redditi dichiarati, non a quelli eventualmente accertati dagli organi fiscali. La tesi svolta dalla cassa convenuta appare condivisibile. Invero l'art. 2 della legge n. 576/1980 (parzialmente modificato dalla legge n. 175/1983) che stabilisce i criteri di calcolo della pensione di vecchiaia, si riferisce - sia nella formulazione originaria, sia nella successiva - al "reddito professionale dichiarato dall'iscritto ai fini dell'I.R.Pe.F." senza alcun accenno a successivi eventuali accertamenti. Ed appare illuminante il raffronto col primo comma dell'art. 10 della legge n. 576/1980 (per questa parte non modificato dalla legge n. 175/1983) che nel fissare la base di calcolo per la determinazione dei contributi, parla di reddito professionale netto prodotto nell'anno "quale risulta dalla relativa dichiarazione ai fini dell'I.R.PE.F. e dalle successive definizioni. Da tale raffronto emerge inequivoca la volonta' del legislatore di determinare secondo criteri diversi rispettivamente la base di calcolo della pensione (base costituita dai redditi dichiarati dall'iscritto) e la base di calcolo dei contributi (base costituita da redditi dichiarati e da quelli eventualmente accertati dagli organi fiscali). Questo pretore solleva di ufficio la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge n. 576/1980 (modificato dalla legge n. 175/1983) nella parte in cui limita la base di computo per il calcolo della pensione ai soli redditi dichiarati escludendo da tale base l'ammontare dei redditi risultante dai successivi accertamenti svolti dagli organi fiscali e dalle successive definizioni con gli stessi. Tale questione e' rilevante nella presente controversia poiche', come si e' gia' visto, il rigetto della domanda attrice si fonda proprio sul cennato art. 2 nella parte che limita la fase di computo della pensione ai soli redditi dichiarati dall'iscritto alla cassa. La questione stessa appare poi non manifestamente infondata per le ragioni che seguono. La limitazione della base di computo della pensione ai soli redditi dichiarati dall'assicurato (cosi' come previsto dal piu' volte citato art. 2) non trova giustificazione nella corrispondente base contributiva poiche', come si e' gia' visto, ai sensi del primo comma dell'art. 10 della legge n. 576/1980 i contributi da versare alla Cassa sono determinati avendo riguardo ai redditi dichiarati dall'assicurato ai fini dell'I.R.Pe.F., o risultanti dalle successive definizioni. Ne' puo' sostenersi che la suddetta riduzione della base di computo della pensione possa configurarsi quale risarcimento del danno cagionato alla cassa dal ritardo nel versamento dei contributi corrispondenti alla differenza fra i redditi accertati e quelli precedentemente dichiarati. Se tale ritardo deve ritenersi sussistente, si applica il quarto comma dell'art. 18 della legge n. 576/1980. Secondo quest'ultima norma il ritardo nel pagamento dei contributi (ritardo che non derivi da omessa, ritardata od infedele comunicazione alla cassa per cui sono previste altre sanzioni) comporta una maggiorazione pari al 15 per cento di quanto dovuto per ciascuna scadenza e l'obbligo del pagamento degli interessi di mora nella stessa misura prevista per le imposte dirette. Siffatta maggiorazione in aggiunta agli interessi di mora, costituisce un adeguato ristoro del danno cagionato alla cassa dal ritardo nel pagamento dei contributi dovuti dall'assicurato. Pertanto la riduzione della base di computo della pensione (riduzione di cui si duole l'odierno attore), non puo' giustificarsi che quale sanzione nei confronti dell'iscritto che abbia reso, ai fini dell'I.R.Pe.F., una dichiarazione non veritiera. Che tale sia la ratio legis e' stato ribadito dal difensore della cassa convenuta nella odierna discussione orale. E proprio siffatta sanzione appare in contrasto con i principi sanciti dalla Costituzione. La Corte costituzionale in diverse decisioni ha ravvisato un contrasto fra l'art. 36 della Costituzione e le norme che sanciscono la perdita o la riduzione della pensione quale ulteriore sanzione conseguente ad un reato. La sentenza n. 3/1966 della Corte costituzionale - equiparata la pensione ad una retribuzione differita - afferma testualmente: "L'art. 36 garantisce espressamente il diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualita' e quantita' del lavoro prestato ed in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa. E non appare compatibile con i principi ispiratori di questo precetto costituzionale collegare indiscriminatamente (come fa l'art. 28, n. 5, del c.p., integrato dall'art. 29) per il personale degli enti pubblici e i loro aventi causa, la perdita di tale diritto al fatto che il titolare di esso abbia riportato la condanna ad una certa pena detentiva". Tali principi sono stati ribaditi da successive decisioni della Corte costituzionale (sentenze nn. 78/1967, 112/1968, 144/1971 e 25/1972). Alla stregua di tali principi appare evidente il contrasto fra l'art. 36 della Costituzione ed una norma (l'art. 2 della legge n. 576/1980 e successive modifiche) che, a titolo di sanzione per una non veritiera dichiarazione resa ai fini dell'I.R.Pe.F., riduce il trattamento pensionistico previsto per l'iscritto alla cassa di previdenza forense. Tale contrasto appare ancor piu' grave ove si consideri che la divergenza fra la suddetta dichiarazione ed i successivi accertamenti degli organi fiscali in molti casi puo' derivare da un fatto che non integra gli estremi di reato. Siffatta divergenza puo' addirittura rescindere dall'intento del dichiarante di evadere parte dell'imposta (basti pensare ai casi di evidente errore materiale, o ai casi in cui la divergenza discende da una differente interpretazione delle norme fiscali che costituiscono un settore dell'ordinamento sempre piu' intricato e complesso). Il piu' volte citato art. 2 appare in contrasto oltre che con l'art. 36 della Costituzione, per le gia' esposte ragioni, anche con l'art. 3, per le considerazioni che seguono. In applicazione dei principi sanciti dalla sent. n. 3/1966 della Corte costituzionale la legge n. 424/1966 ha abrogato le disposizioni che prevedevano la perdita o riduzione della pensione a seguito di condanna penale e tale norma, per sua espressa disposizione, " .. si applica nei riguardi delle persone diverse dal dipendente dello Stato o di altro ente pubblico che a norma delle disposizioni vigenti hanno od avevano comunque titolo alla pensione o ad altri trattamenti previsti dal precedente art. 1". Ora l'art. 2 piu' volte citato si pone, nella parte che si sta esaminando, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione poiche' stabilisce una irragionevole disparita' di trattamento fra gli iscritti alla cassa forense e gli altri soggetti titolari di pensione cui si riferisce la citata legge n. 426/1966; poiche' solo per questi ultimi la riduzione della pensione non puo' essere ricollegata ad un comportamento penalmente rilevante dell'assicurato. Del resto in termini del tutto analoghi si sono espresse alcune delle gia' richiamate sentenze della Corte costituzionale in ordine a quelle normative che prevedevano la privazione o diminuzione della pensione quale sanzione accessoria ed erano rimaste operanti sino all'entrata in vigore della cennata legge n. 426/1966 priva di effetto retroattivo (sent. n. 112/1968; sent. n. 25/1972). E tale disparita' di trattamento appare ancora piu' marcata ed irragionevole ove si richiami un rilievo gia' svolto. Si e' gia' posto in evidenza che la riduzione del trattamento pensionistico, prevista dal piu' volte citato art. 2, consegue ad una divergenza - fra la dichiarazione ai fini I.R.Pe.F., resa dall'iscritto alla cassa di previdenza forense, ed i successivi accertamenti effettuati dagli organi fiscali - che, in non pochi casi, non integra gli estremi di reato. Atteso che la cassa di previdenza forense ha pesonalita' giuridica di diritto pubblico (art. 1, legge 8 gennaio 1952, n. 6), pare opportuno aggiungere che l'eventuale dichiarazione di incostituzionalita', nei termini sopra precisati, del piu' volte citato art. 2, pur comportando l'ampliamento della base pensionistica, non si porrebbe in contrasto con l'ultimo comma dell'art. 81 della Costituzione. Infatti le conseguenti maggiori spese a carico della cassa non sarebbero prive di copertura poiche' come si e' gia' rilevato viene inserita nella fase contributiva quella parte di reddito (pari alla differenza fra reddito accertato dagli organi fiscali e reddito in precedenza dichiarato dal titolare) che andrebbe ad ampliare la base di computo del trattamento pensionistico.